I DSA E LA NORMATIVA SCOLASTICA

I DSA E LA NORMATIVA SCOLASTICA

Con l’acronimo DSA (disturbi specifici d’apprendimento) si indica una serie di condizioni che precludono al soggetto, in assenza di ritardo mentale, l’uso di abilità implicate nell’apprendimento, e in particolare nell’apprendimento scolastico, come leggere, scrivere e far di conto.

Appartengono a questa categoria di disturbi, la dislessia (incapacità di leggere in modo spedito e corretto ), la disgrafia (difficoltà di riprodurre segni alfabetici e numerici), la discalculia (disturbo delle abilità aritmetiche), il disturbo non verbale (presenza di deficit visuo-spaziali che compromettono l’esecuzione dei compiti di memoria e la risoluzione di compiti non verbali, come comporre un puzzle, uno schema o utilizzare una cartina geografica).

La scuola è spesso l’ambito principale in cui questi problemi si manifestano, perché le loro caratteristiche interferiscono precocemente con il normale percorso d’apprendimento: l’alunno ha difficoltà a leggere e scrivere, è più lento dei compagni e spesso sviluppa comportamenti ansiosi, perché si percepisce inadeguato alla situazione.

Se il disturbo non viene precocemente individuato e trattato, fenomeno diffuso fino a pochi anni fa, quando l’alunno con DSA era spesso etichettato come pigro o poco capace, la situazione peggiora fino a compromettere in modo spesso definitivo la carriera scolastica del soggetto.

Oggi, fortunatamente le cose sono cambiate: nel nostro paese una legge, la 170 dell’8/10/10 (completata da Decreto legge e Linee guida del luglio 2011), tutela il diritto allo studio degli alunni con DSA, prevedendo a loro sostegno nuove metodologie didattiche e valutative.

Le linee guida favoriscono una didattica personalizzata attraverso l’introduzione dei cosiddetti “strumenti compensativi” e “misure dispensative” particolarmente per l’insegnamento della matematica e delle lingue straniere. Tra gli strumenti compensativi ricordiamo: la sintesi vocale che trasforma un compito di lettura in un compito d’ascolto; il registratore che consente all’alunno di non prendere appunti durante la lezione; i programmi di videoscrittura con correttore ortografico; la calcolatrice; il computer, strumenti come tabelle, grafici, mappe concettuali.

La misure dispensative sono invece interventi che consentono all’alunno di non svolgere alcune prestazioni troppo difficoltose per lui: sostenere un’interrogazione alla lavagna, semplificargli le domande scritte rispetto a quelle  date alla classe, avvalersi di questionari a risposta multipla invece che con domande aperte, fornirgli più tempo per la consegna dei compiti.

Lo spirito della normativa è chiaro: non si tratta di concedere all’alunno DSA un privilegio non condiviso dal resto della classe, o di esercitare nei suoi confronti una compassionevole indulgenza, ma semplicemente di metterlo nelle condizioni più idonee per svolgere il proprio compito di studente.

In quest’ottica, le misure particolari adottate nei suoi confronti sono equiparabili agli occhiali prescritti a una persona con difficoltà visive: costui deve infatti servirsene per poter leggere come gli altri, non per rinunciare alla lettura stessa.

Come accennato precedentemente, fino a circa  20 anni  fa la scuola non era in grado di farsi carico delle situazioni di disagio psicologico che si ripercuoteva fatalmente sui processi d’apprendimento perché foriera di un modello di “normalità” troppo intellettualistico improntato su una concezione dell’intelligenza esclusivamente linguistico-verbale o logico-matematica; o per dirla con Don Milani che negli anni ’50 affermava “ la scuola è  un ospedale che accetta i sani e rifiuta i malati”.

Strada facendo, il progresso delle neuroscienze ha permesso l’approfondimento diagnostico di “quadri” del disagio psicologico che nulla hanno a che vedere con deficit neurologici, ritardi mentali o intellettivi veri e propri (dall’autismo, ai disturbi dell’apprendimento ma anche a tutte quelle situazioni di disagio affettivo, economico-sociale, di marginalità nel territorio o d’integrazione culturale).

Ciò ha significato una maggiore sensibilizzazione della scuola  per il fattore accoglienza-socializzazione a cui i risultati dell’apprendimento cognitivo sono subordinati e l’apertura verso vari modelli del funzionamento mentale ; in pratica si può essere “normali” e “intelligenti” in vari modi.

Ritornando sui DSA c’è da dire che a volte si  assiste allo strascico del pregiudizio tradizionale che si può essere normali solo in un modo proprio nelle famiglie del soggetto DSA e nello stesso soggetto che preferiscono non presentare la documentazione adeguata o magari avvalersi dell’insegnante di sostegno per altri disturbi per non sentirsi “diversi” ed etichettati come “anormali”.

Questa scelta impropria , spesso si rivela un vero e proprio boomerang che finisce per alimentare quel tasso d’ansia da prestazione per paura di risultare inadeguati al compito producendo un surplus di fatica inutile che non favorisce certo né il soggetto, né le famiglie, né tantomeno gli insegnanti.

 

 

Bibliografia

 

             Lorenzo Milani “Lettere a una professoressa”, Mondadori, Milano, 1967

LA MOTIVAZIONE ALLO STUDIO

 

(MOTIVAZIONI INTRINSECHE ED ESTRINSECHE)

Gli psicologi sociali classicamente distinguono il “bisogno” dalla “motivazione”; il primo sostanzialmente è uno stato d’essere che segnala uno “squilibrio”, una “mancanza”, un “vuoto” psicofisiobiologico  e/o sociale, la seconda riguarda la “spinta ad agire” che parte da questo stato di bisogno nel tentativo di ripristinare un  benefico  equilibrio organismico attraverso quegli scambi omeostatici con l’ambiente che fatalmente lo realizzano (fosse anche , banalmente, procurarsi il cibo quando si ha fame).

Sempre seguendo la tradizione, si distinguono le motivazioni intrinseche da quelle estrinseche.

Le prime, riguardano quelle attività la cui spinta proviene dall’interiorità psicologica e che perciò si fanno per il gusto di farle, perché le si ama (hobby, interessi, passioni; iscriversi ad un corso di tecnica pittorica perché si ama la pittura); le seconde riguardano quelle attività la cui spinta proviene dall’esterno sociale sottoforma di conseguimento di premi, vantaggi socio-economici o di prestigio (iscriversi ad un corso di tecnica pittorica non perché si ami particolarmente la pittura  ma perché p.es. si acquisisce un maggior punteggio per la partecipazione ad un concorso al ministero delle “Belle Arti”).

La motivazione allo studio non esula da tale impostazione. Le motivazione intrinseche scolastiche-universitarie riguardano logicamente l’amore appassionato per lo studio e per alcune discipline del classico studente-modello; le motivazioni estrinseche, invece, si agganciano alla prospettiva allettante di ricompense (premi/regali dei genitori, all’ottenimento dei bei voti da parte degli insegnanti e ad una buona dose di individualismo competitivo).

Le prime si collegano ad obbiettivi di padronanza (need for competence; bisogno di competenza), le seconde ad obbiettivi di prestazione.

A prima vista, sembrerebbe che contino di più le motivazioni intrinseche, quelle che a noi piace immaginare come le più “vere” che rappresentano la nobiltà d’animo e l’autenticità umana dell’individuo. In effetti da vari studi e ricerche è risultato che all’inizio di un qualsiasi percorso scolastico/professionale le motivazioni intrinseche risultavano preponderanti rispetto a quelle estrinseche, ma durante il percorso formativo quelle estrinseche si prendevano la rivincita e verso la fine del percorso andato a buon fine, quasi si equiparavano (con una leggera prevalenza di quelle intrinseche).

Come tradurre questi dati scientifici. Immaginiamo che il classico studente -modello  che ama ciò che studia , s’impegna con passione  dimostrando  padronanza della materia, incappi nel classico docente “tirchio” di voti che inconsciamente intenda dimostrare che lo studente sa sempre meno di lui e non sarà mai alla sua altezza, e magari quel povero studente sia  anche costretto a subire  gli improperi dei suoi  genitori che non s’accontentano mai; il probabile risultato sarà una frustrazione emotiva sistematica che finirà per svilire quella “intrinsecità motivazionale” che pur possedeva.

Analogamente al contrario. Immaginiamo un docente che “regali” i voti per non impegnarsi e non avere grattacapi ad uno studente completamente demotivato intrinsecamente; il   ragionamento di quest’ultimo sarà “anche se non m’impegno andrà sempre bene” e il risultato sarà che le motivazioni intrinseche che formano il “di dentro” dell’individuo rimarranno allo stato brado, disperse chissà dove!

Le motivazione intrinseche ed estrinseche non essendo affatto le une contro le altre devono trovare un punto d’incontro che rappresenta la totalità psicosociale dell’individuo; questo punto d’incontro lo possiamo individuare nel concetto di “conferma” (esterna) che stima il materiale interno, valutandone il livello nella prospettiva futura del suo sviluppo, soltanto così è possibile crescere e migliorarsi.

Il soggetto deve essere riconosciuto per quello che è,  e qualcuno glielo  deve pur dire; stimare la qualità del merito non deve limitarsi ad una angusta valutazione  solo scolastica ma ad una rivalutazione personale-esistenziale come monitoraggio continuo di un’identità che vuole sapere chi è, cosa può fare, dove andare!

In tal senso il termine “meritocrazia” è troppo gelido e risulta fuorviante e improprio, dal momento che sembrerebbe voler stimare solo i risultati senza l’analisi dei processi interni e delle risorse.

Per ultimo, vorrei fare una considerazione storico-sociale di carattere generale nel tentativo di restituire un filo di speranza a tutti quegli studenti “demotivati alla vita” che continuano a prendere brutti voti a scuola e a tutti quei genitori (ma anche insegnanti) che si disperano per questo.

Viviamo in un’epoca che gli intellettuali definiscono “POSTMODERNISMO”, in cui si sono perse tante certezze antropologiche valoriali e sicurezze socio-economiche, viviamo in una realtà sociale fluida o, come direbbe , Bauman “liquida” che si muove continuamente a ritmi vertiginosi e ,come le dune del deserto, non può più dare punti esterni di riferimento certi con cui orientarsi.

Fino a 20/30 anni fa studiare per diventare avvocato o medico, dava una relativa certezza che si sarebbe fatta quella professione. Oggi non è più così!

Potremmo dire che la liquidità della società ha fiaccato le motivazioni estrinseche , ma per il discorso fatto fin qui,  questa fiaccatura ha finito per erodere anche quelle intrinseche ed oggi , pur senza incorrere in generalizzazioni catastrofiche, assistiamo frequentemente a questo scenario che vede molti giovani fiaccati nell’animo dispersi “dentro” e “fuori” che non sanno più orientarsi. (un esempio su tutti è proprio il caso degli hikikomori non solo in Giappone ma ormai anche in Europa).

Bene! Proprio perché oggi è estremamente difficile ritrovarsi seguendo il filo della tradizione dal momento che tale filo   risulta sfuggente,  invisibile, imprendibile e non si tramanda ai posteri,  tanto vale cercare d’intercettare  il filo della propria “vita interiore”, quel filo che nessuno ci può togliere perchè nessuno ce lo può dare; è il filo d’Arianna che conduce FUORI dal  labirinto  della confusione , dei pensieri dispersi, del vuoto emotivo,  dell’immobilismo ma anche delle azioni folli, delle immaginazioni e  fantasie mitiche, della fuga nelle dipendenze,  della pretesa di  avere garanzie immediate, FUORI dal labirinto-eremo della propria mente, nello SPAZIO DEL NOI   , l’unico luogo  dove può realizzarsi il DESIDERIO di essere PER SE’ e PER GLI ALTRI!

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Zygmunt  Bauman “Vita liquida”, Laterza, Bari, 2006

GLI HIKIKOMORI

VIDEO-INTERVISTA SUL FENOMENO DEGLI HIKIKOMORI: https://www.facebook.com/316484862168286/videos/381151409034964

Il fenomeno degli Hikikomori nasce in Giappone intorno agli anni ’80 che letteralmente vuol dire “isolarsi”, “stare in disparte”, “ritirarsi” dai ritmi frenetici e dai modelli altamente   individualistici e competitivi imposti dalla società giapponese nei confronti di giovani e adolescenti che si accingono a completare gli studi di scuola media secondaria o ad affrontare selezioni durissime misurate in base al grado di prestigio di cui gode quell’università.

Si stima che siano tra i 500.000 e 1 milione i giovani giapponesi che “crollano” psicologicamente, sentendosi inadeguati, inadatti, troppo fragili per rispondere alle sollecitazioni di un tale scenario sociale e, rinunciando a qualsiasi forma di contatto esterno, si rifugiano nella loro stanza, mantenendo rapporti col mondo esclusivamente attraverso la realtà virtuale del web, tra internet, social network e video-giochi.

Si sono auto-murati vivi dentro la loro stanzetta, vivendo di notte e dormendo di giorno, mantenendo rapporti sporadici e comunque conflittuali con gli stessi genitori.

Molti studiosi giapponesi hanno ricondotto tale fenomeno alla durezza troppo selettiva del sistema scolastico giapponese  a quello che loro chiamano “l’inferno degli esami”, altri c’hanno visto la rappresentazione dell’AMAE, cioè una dipendenza eccessiva tra madre e figlio legati da un rapporto simbiotico con l’aggravante di una cronica assenza paterna, altri ancora la difesa tanto primitiva quanto radicale dei troppo “deboli” , vittime di episodi di bullismo, o al contrario, la fatale manifestazione di personalità decisamente troppo narcisistiche, introverse, schiacciate da un’immagine troppo idealizzata del SE che non può accettare ridimensionamenti, fallimenti che minerebbero alla base quell’aspettativa ideale con cui la persona si rappresenta.

Anche se uno di questi fattori può prevalere sull’altro o risultare addirittura sinergici tra loro, gli autori si trovano  d’accordo perlomeno su un punto: gli hikikomori non sono scarsamente intelligenti (semmai il contrario!), né tantomeno pazzi!  e non possono rientrare semplicisticamente nella diagnosi di agorafobia o di depressione che insorgono dal di dentro senza legarsi a nessun motivo plausibile.

Il loro comportamento (che certamente produce anche effetti depressivi) è l’effetto della decodifica di un mondo sociale vissuto come “ostile” e che perciò non vale la pena di vivere.

L’accordo tra gli autori riguarda anche il rapporto tra gli hikikomori e la dipendenza da internet: non è la dipendenza da internet che genera gli hikikomori, ma al contrario, chi intraprende tale strada (per i vari motivi esposti) e diventa un hikikomori almeno si preserva la possibilità di comunicare col mondo per via virtuale, è l’ultima scelta rimasta possibile che lo fa sentire vivo.

In Giappone il fenomeno degli hikikomori , che inizialmente riguardava giovani e adolescenti si è espanso anche alle generazioni più mature dei trentenni e quarantenni, cosa che per ora non riguarda l’Europa.

Il fenomeno degli hikikomori s’affaccia in Italia intorno al 2005, oggi si stima che gli hikikomori italiani siano tra i 30.000 e i 50.000, ma il numero sembra destinato a salire.

Il fenomeno degli “eremiti sociali” (così vengono chiamati in Italia) sembrerebbe un po’ più mitigato rispetto a quello giapponese e dalle tinte meno drammatiche. Per i nostri hikikomori, l’isolamento sociale non è così drastico: fanno anche uscite sporadiche, ricevono amici e intrattengono rapporti sicuramente migliori con i propri genitori.

Comunque siamo in cima a tutti i paesi europei, a seguire la Spagna; le regioni dove si concentrano maggiormente sono quelle del centro-nord, Emilia-Romagna in testa ( recentemente  si sono verificati 27 casi solo in una scuola di Bologna) a seguire Liguria e Umbria.

C’è un dato su cui val la pena di riflettere: 9 hikikomori su 10 sono maschi e tale fenomeno è stato giustamente definito una sorta di “anoressia sociale”, mentre avviene esattamente il contrario per la conclamata “anoressia mentale”, 9 anoressiche su 10 sono femmine.

Sembrerebbe che per i primi il vissuto d’inadeguatezza colpisca la “persona” nella sua interezza rispetto ai modelli etico- sociali avvertiti come eccessivi e irraggiungibili, mentre per le seconde il vissuto d’inadeguatezza colpisca il “corpo” che non combacia con i modelli estetico-sociali. Modelli vissuti come tiranni estranei a cui gli esseri umani , maschi e femmine però si consacrano alienandosi in essi, incapaci di produrre l’autenticità del proprio modello di essere-se-stessi nel corpo, nella mente e nell’anima.

E’ ben comprensibile che affrontare terapeuticamente il problema degli hikikomori non è affatto facile, dal momento che innanzitutto il riordino di una realtà sociale più allettante e appetibile che non induca a delle sproporzionate reazioni di fuga negli adolescenti più deboli, è compito principalmente dei politici.

In chiave strettamente clinico-psicologica non è facile aiutare chi non intende farsi aiutare affatto. In questo senso sono stati costituiti dei forum, blog, gruppi di discussione (anche su facebook) che aiutino sia la famiglia, la prima ad essere chiamata in causa (abbassando certe pretese ideali ed evitando sequestri di computer ecc. ) sia il soggetto hikikomori accettando terapie a domicilio o via skype e proponendogli prospettive sociali lavorative o di studio perseguibili.

Sitigrafia

 

IL FEMMINICIDIO

 

Ormai è diventata un’autentica piaga sociale vista l’alta frequenza di questo increscioso fenomeno che provoca angoscia e sgomento in tutti noi………”

Deturpa il con l’acido il volto della fidanzata che l’aveva lasciato”……..”Massacra di botte la moglie che voleva separarsi da lui”………”Spara un colpo di pistola alla moglie e poi tenta il suicidio”……..questi e tanti altri titoli analoghi hanno costellato le tristi pagine di cronaca nera dei giornali; la ripetitività nefasta di tali accadimenti sembra conferire a tale fenomeno la classica caratteristica della punta dell’iceberg la cui estensione non si conosce precisamente, appunto perché sommersa.

Allora la domanda è :cosa emerge attraverso quella punta e cosa si agita nel sommerso più profondo? Il classico uomo della strada potrebbe dire che queste cose sono sempre esistite…..certamente SI’!…….ma assolutamente NO in queste proporzioni e con questa frequenza.

E allora facciamo un po’ di storia. Correvano gli anni ’60, quando dagli Stati Uniti veniva importato il movimento femminista la cui principale rappresentante era Jane Fonda, figlia del noto attore Henry Fonda, da cui aveva ereditato quel fascinoso carisma che li caratterizzava entrambi.

Da quel momento in poi si assiste all’avanzata del popolo femminile in termini di rivendicazione di diritti politici e civili alla pari con quelli già appartenenti agli uomini; (ad onor del vero qualcosa del genere già era stato anticipato in Inghilterra dal movimento delle suffragette e all’approdo del suffragio universale che in Italia vide le donne votare per la prima volta nel referendum del 1946 che sancì il passaggio dalla monarchia alla repubblica).

Negli anni ’60 e ’70  il movimento per l’emancipazione delle donne si coniugò con le lotte operaie e studentesche nell’ambito della lotta politica di ispirazione marxista che promuoveva l’emancipazione di tutti quei ceti, classi e soggetti più deboli e oppressi dal capitalismo imperante, soggetti che  mai avevano trovato voce nel capitolo della storia dell’umanità, di cui anche le donne avevano certamente fatto parte fino a quel momento.

Dagli anni ’80 in poi si assiste ad una biforcazione fatale: mentre la promessa di libertà ed uguaglianza sociale d’ispirazione marxista attuata dai regimi comunisti ha vacillato fino all’ecclissi totale, la marcia del popolo femminile che rivendicava libertà ed uguaglianza sociale si è rivelata inarrestabile ed è proseguita fino ai giorni nostri.

Oltre all’aborto e al divorzio, conquiste di vecchia data, la parità dei diritti per lo studio, per il lavoro e soprattutto per poter ricoprire posti di rilievo nelle alte sfere del potere politico, accademico, amministrativo, economico nella piccola, media e grande industria. Insomma donne manager!……donne in carriera!…..donne che non recedono che non hanno più paura di chi per secoli le ha estromesse dalla gestione della RES pubblica e privata. (si noti come sono stati declinati al femminile termini come sindaco, ministro, cosa inconsueta e impensabile 30/40 anni fa).

La conquista di quei territori che tradizionalmente appartenevano all’uomo ha significato per quest’ultimo l’erosione implacabile del “suo potere sulla donna” che lo confina nell’angoletto angusto del vissuto di piccolezza impotente, incapace di ricostruire il senso di un proprio SE’ a prescindere dalla donna.

In questa situazione qual è il colpo di grazia che potrebbe ricevere il povero ometto?

Esattamente quello dell’ABBANDONO che rovescia completamente i ruoli tradizionali; abbandono che risuona più o meno così: “ Non solo posso vivere tranquillamente da sola, ma vivo molto meglio senza colui che pretende ancora di essere il padrone della mia vita e che invece l’affossa!”.

E’ lo smacco terrificante, intollerabile  che incute smarrimento e terrore negli uomini e fa esplodere la violenza omicida.

E’ lo smacco che , come la cartina al tornasole, svela la verità che è sempre esistita anche quando non si vedeva: affettivamente l’uomo è sempre stato più debole e dipendente dalla donna anche quando sembrava il contrario, semplicemente erano le sue orge di potere che gli facevano credere il contrario e producevano socialmente questa distorsione percettiva; (guardate i destini di una coppia di vecchietti: muore lei , lui si sente perso, muore lui, lei se la cava).

Ma adesso che il cristallino della storia ha rifocalizzato l’immagine corretta saranno gli uomini capaci di ritrovarsi!?……..ai posteri l’ardua sentenza!

 

 

STATISTICA E DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

Secondo l’allora ministro della sanità prof. Veronesi , nell’anno 2001 quasi mezzo milione di persone in Italia ha sofferto di disturbi del comportamento alimentare.

Ben 65.400 tra le giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni , pari all’1,5% della popolazione femminile, hanno ricevuto la diagnosi di anoressia e bulimia.

Ogni anno si contano 8500 nuovi casi in entrambe le sindromi e nonostante siano patologie tipicamente riscontrate tra le donne (il rapporto tra i sessi è di un caso tra gli uomini per dieci tra le donne) sono sempre più diffuse anche tra gli uomini.

Quasi “un contagio” sostiene il ministro “contro il quale bisogna combattere”.

L’aspetto più grave dell’anoressia è rappresentato dall’alto tasso di mortalità che, pari al 10% a dieci anni dall’inizio della malattia, sale fino al 20% a distanza di vent’anni.

Per il prof. Manara, presidente della Società Italiana dei Disturbi del Comportamento Alimentare va lanciato l’allarme sul problema delle ricadute che sono frequentissime.

Solo per la bulimia il rischio di recidive si aggira intorno al 30-40% dei casi. In molti paesi occidentali organi di ricerca, istituzionali e privati, hanno prodotto stime dell’entità e della diffusione di queste sindromi.

Secondo il “National institute of Mental Health”, i disturbi del comportamento alimentare crescono in modo predominante, ma non esclusivo, tra le adolescenti e le donne adulte (90% del totale dei casi), con un’età mediana d’insorgenza pari a 17 anni.

Negli Stati Uniti la percentuale di casi diagnosticati tra le donne, nel corso del 2001, è compresa tra 0,5-3.7% per l’anoressia e 1,1-4.2% per la bulimia.

Inoltre, il 2.5% della popolazione totale ha sofferto di “binge eating disorder” (disturbo dell’alimentazione incontrollata).

Nella bulimia, la cui definizione di remissione consiste nell’assenza di sintomi per almeno 4 settimane, circa il 25% delle remissioni ha una recidiva in meno di tre mesi.

A distanza di 9 mesi dalla remissione solo il 49% delle persone non ha ricadute. “L’eating disorders association” britannica denuncia che nel Regno Unito ci sono almeno 60.000 persone con diagnosi di disturbo alimentare, ma ritiene plausibile che siano più di 1 milione i soggetti affetti da queste patologie.

Questa notevole sottostima sarebbe dovuta alla riluttanza con cui ci s’informa sul problema e si chiede aiuto, così come alla difficoltà nel formulare la diagnosi.

Nel 1998 la Commissione Europea ha finanziato il progetto di ricerca “Global Eating Disorders Approach” con l’obbiettivo di aumentare il livello d’attenzione tra i medici di base e l’opinione pubblica, nei confronti dei problemi causati dai disturbi del comportamento alimentare.

Finora sono stati coinvolti in tutta l’Europa ben 10.000 medici di famiglia che, una volta formati, dovranno essere in grado di effettuare diagnosi precoci e prevenzione tra i giovani.

Secondo il Los Angeles Times “ 30 miglia a sud dalla frontiera della affamata Corea del Nord, le giovani donne della capitale sudcoreana digiunano, vittime non della mancanza di cibo ma della moda….. Se l’Asia può essere usata come un indicatore della diffusione del fenomeno , allora i disturbi alimentari vanno verso la globalizzazione”.

Lo psichiatra coreano Joon Ki sostiene che l’aumento di queste patologie negli ultimi anni è stato fenomenale. Essere magri è giudicato in, il grasso è out. Ciò è interessante perché perché gli asiatici sono in genere più magri e più minuti dei caucasici, ma il loro obbiettivo è diventare ancora più magri.

Secondo lo psichiatra Lee, direttore del centro universitario dei disturbi del comportamento alimentare di Hong Kong “ La prevenzione culturale non è dare il Prozac o prescrivere la psicoterapia , ma trovare i metodi sociali per dare potere alle donne.

La società giudica le donne ancora troppo dal punto di vista fisico”.

Gli esperti discutono sull’origine del fenomeno dividendosi tra chi vede una sorta di contagio di patologie occidentali veicolato dalla moda, la musica e i mass media, e chi invece pensa sia dovuto all’aumentato benessere , alla modernizzazione ed alle richieste conflittuali che oggi ricadono sulle giovani donne.

Dott. Parisella Umberto, via Taranto 114,  zona San Giovanni (uscita metro A San Giovanni) Roma.

BIBLIOGRAFIA

S. Mallone, Epidemilogia dei disturbi del comportamento alimentare, in L. Costantino, L’anoressia nervosa, storia, psicopatologia e clinica di un’epidemia moderna, Liguori, Napoli, 2008

MOBBING

MOBBING

mobbing

mobbing

 

Mobbing è’ una parola inglese traducibile con “maltrattamento”.

Indica un fenomeno di bullismo tra adulti nel mondo del lavoro, una persona diventa vittima di uno o più colleghi, si prende la colpa per problemi ed errori di cui non ha responsabilità, ogni minimo pretesto viene sfruttato per rimproverarla ed isolarla.

A differenza del bullismo tra giovani, la violenza nel mobbing è spesso sottile; la  vittima  viene scelta di solito perché più indifesa, perché ha un carattere meno assertivo o semplicemente perché è nuova nel gruppo di lavoro.

Più la persona si isola e diventa debole, più viene attaccata e maltrattata dagli altri.

Come nel bullismo molte persone anche se non sono diretti aggressori, diventano complici della situazione, per esempio trasformando la vittima in “caso problematico”, considerandola una persona che lavora male, asociale, incapace di integrarsi.

Può succedere che il capo dell’azienda intervenga rimproverando la vittima per il suo stesso comportamento, innescando il classico circolo vizioso.

Le conseguenze possono essere gravi (disturbi psicosomatici, insonnia, depressione), determinando assenza o addirittura allontanamento definitivo dal lavoro, fino a casi estremi di suicidio.

Rientrano nei casi di mobbing le “molestie sessuali” da parte del datore di lavoro, di cui sono certamente vittime predestinate le donne.

C’è  da notare che la percentuale dei casi di mobbing è molto più alta nei paesi nord-europei che non in Italia, si attesta intorno all’età media (30-50 anni) ed aumenta nel settore lavorativo pubblico.

Infine, c’è da notare che la denuncia per mobbing è molto temuta dalla aziende in quanto comporta notevoli risarcimenti economici nel caso in cui il mobbing venga riconosciuto.

CYBER-BULLISMO

CYBER-(BULLISMO)

cyber bullismo

 

Bullismo e cyber-bullismo costituiscono una vera e propria piaga per tutta l’istituzione scolastica italiana e per gli adolescenti che ne sono coinvolti.

Il tema è straconosciuto e ormai di dominio pubblico: il “bullo” è colui che si fa “bello” approfittandosi (con varie modalità) della debolezza fisica, psichica, sociale, affettiva di chi si trova in uno stato d’inferiorità o comunque di disagio.

Al bullismo classico s’è aggiunto recentemente quello derivato dall’uso dei social-network che finisce per “mettere alla berlina” il povero malcapitato attraverso pesanti prese in giro,  montaggi fotografici, calunnie.

Il cyber- bullismo, forse, risulta ancora più doloroso di quello classico dal momento che l’immagine fortemente penalizzata del soggetto perseguitato diviene di dominio pubblico per centinaia e forse migliaia di spettatori informatici che assistono, magari divertiti, al tragicomico spettacolo.

Il risultato sarà che tra il soggetto preso di mira e il mondo sociale (e non solo col gruppo dei pari) si creerà una barriera psicologica invalicabile ma che diverrà molto presto anche fisica, dal momento che tenderà a non andare più a scuola, a non mettere più il naso fuori di casa, rifugiandosi in un isolamento cronico, pieno di paure, timori, sensi di colpa; la giusta anticamera per l’esplosione di una depressione conclamata.

Dal momento che, come sappiamo, tale tematica ha avuto spesso come tragico epilogo l’atto suicidario, la prima cosa da ribadire e da fare è non mettersi nei “panni della vittima” predestinata a subire, ma reagire, aprirsi e denunciare il tutto alle istituzioni competenti (famiglia, scuola, autorità giudiziaria) .

Prima si fa questo, prima si blocca il decorso verso lo scivolamento in una patologia mentale, meno saranno i “danni” psicologici da riparare in sede psicoterapeutica.

C’è un’ultima considerazione da fare: anche il bullo è un “debole” capovolto che è diventato tale per nascondere i suoi limiti, anche lui deve e merita d’essere aiutato.

TOSSICODIPENDENZE

tossicodipendenze

LE TOSSICODIPENDENZE

 

Chiariamo subito che le tossicodipendenze (alcol, droghe, gioco d’azzardo, sesso compulsivo ecc.) non rappresentano il fuoco del “vero” problema che risiede nelle profondità dell’animo umano, ma fatalmente la “fuga” da tale problema alla ricerca di un godimento effimero generatore di quel senso di ebbrezza che produce l’illusione del superamento dello stesso problema.

Ciò vale particolarmente per il piacere psicofisico derivante dal consumo di droghe, alcol e sesso compulsivo, ma anche per il piacere tutto mentale del giocatore d’azzardo, onnipotentemente convinto che la Dea bendata, presto o tardi, lo bacerà.

In tal modo “la via di fuga” si sovrappone al problema originario (che può essere di varia natura, affettivo, lavorativo, senso di sé sfocato, disperso o immaginario) creando una pericolosa dipendenza che raddoppia il problema, lasciandolo immutato.

In sede clinica, è necessario lavorare proprio sulla “messa a fuoco” del problema originario, in modo che trovando gradualmente soluzioni tanto efficaci quanto salutari, si allentino i richiami verso la fuga tossica, riducendo in tal modo il tasso di dipendenza.

IL BULLISMO OMOFOBICO

 

LE PAROLE INTERDETTE, LE BRUTTE PAROLE E IL BULLISMO OMOFOBICO

Sappiamo che in tutte le società su certi eventi, oggetti, condizioni sociali, azioni si scaricano connotazioni culturali ed emotive forti, tensioni identitarie, tanto da rendere sgradevoli, pericolose, da evitare le parole che ad essi si riferiscono.

Queste cambiano al mutare delle epoche storiche, delle condizioni sociali, delle ideologie ed anche delle mode. Si delinea in tal modo il confine sociale tra ciò che è dicibile e ciò che non lo è; e sempre in questo modo l’indicibile si carica emotivamente, l’evidenza di questo fenomeno rappresenta una delle prove più convincenti del legame che esiste tra parole e cose, in genere tra lingua, cultura e società.

Il bullismo omofobico, e le parole mediante le quali si manifesta, si inseriscono in questo discorso sulle brutte parole (parole da evitare perché socialmente interdette ma che proprio per questo, se e quando vengono usate, colpiscono) in generale, e in particolare all’interno della dialettica “tra diversità e normalità, dal momento che proprio quello del chiamare l’altro da noi è uno dei capitoli cruciali del tema dell’interdizione.

IL BULLISMO OMOFOBICO

IL BULLISMO OMOFOBICO

Lo è stato tradizionalmente ogni volta che una comunità ha guardato al suo interno verso le periferie, e tanto più quando si è aperta all’esterno; ma lo è diventato in proporzioni ancora maggiori nel nostro tempo, in cui non solo tutte le infinite facce della diversità ci si presentano attraverso gli ormai sofisticati canali della conoscenza virtuale ma il contatto e il confronto avvengono realmente e quotidianamente attraverso i diversi modi della globalizzazione.

La diversità religiosa, la diversità razziale e perfino regionale,  la diversità sessuale, la diversità culturale, la diversità sociale, sono oggi campi estremamente delicati nella comunicazione.

Una cartina di tornasole è che proprio parole legate a queste diversità  (o marginalità) sono oggi tra gli insulti più usati e più violenti:

marocchino, negro, bongo bongo, albanese, vucumprà, lesbica, terrone, culattone, invertito, morto di fame, analfabeta, pezzente, zingaro, ebreo, beduino, accattone, malato di mente e , perché no, donnetta.” (1).

La dinamica e l’efficacia distruttiva dell’insulto verbale si possono ricondurre a questa matrice, che fa sì che una parola possa ferire, proprio per la sua capacità di evocare in un certo contesto la sgradevolezza, la pericolosità , l’ambiguità culturale di una condizione sociale diversa, di materializzarla agli occhi di un adolescente alla ricerca precaria di un’identità.

Le brutte parole, insomma, non sono solo parole, perché in un dato contesto socioculturale richiamano troppo esplicitamente, come si accennava sopra, qualche cosa che può far paura, che può offendere, che può ferire.

BIBLIOGRAFIA

 

  • (1) Canobbio, Confini invisibili: l’interdizione linguistica nell’Italia contemporanea, in G. Iannaccaro, V. Matera, la lingua come cultura, Utet università, Novara, 2009, 47

LA PSICOLOGIA DELL’ORIENTAMENTO

 

LA PSICOLOGIA DELL’ORIENTAMENTO

Dal punto di vista etimologico il termine orientamento deriva dal latino “ORIENS” che significa “ORIENTE”, in quanto participio presente del verbo “ORIOR” (sorgere), (DI FABIO, 1998).

Ciò significa che per poter individuare il NORD e tutti gli altri punti cardinali in vista della corretta direzione in cui muoversi, è necessario sapere il luogo “dove sorge il sole”.

La metafora geografica è quanto mai significativa per indicare come l’atto orientativo trovandosi all’incrocio tra l’interiorità soggettiva e l’esteriorità sociale, rappresenti il tentativo di coniugazione tra la nascita di potenziali elementi “nuovi” che sorgono nel soggetto (desideri, aspirazioni, istanze) e le offerte-possibilità dello spazio storico-sociale circostante, al fine d’individuare la giusta direzione Da questi primi elementi introduttivi possiamo già sfatare alcuni luoghi comuni frutto del retaggio storico della tradizione psicologica che legano il concetto di orientamento esclusivamente nel campo scolastico-professionale (aziendale) cominciando ad intenderlo, invece, come un “percorso” che investe l’intera area di vita del soggetto capace di produrre scelte consapevoli in vista della sua autonomia funzionale.

Riportiamo la “raccomandazione” conclusiva del congresso dell’Unesco a Bratislava nel 1970: “Orientare significa porre l’individuo in grado di prendere coscienza di sé e di progredire, con i suoi studi e la sua professione, in relazione alle mutevoli esigenze della vita, con il duplice scopo di contribuire al progresso della società e di raggiungere il pieno sviluppo della persona umana“.

Tale definizione (tra l’altro nemmeno troppo recente) contiene già in nuce gli aspetti essenziali dell’orientamento moderno in parte già accennati:
1) L’orientamento come “pratica educativa permanente” che include l’intera vita del soggetto nei momenti topici di scelte cruciali.
2) L’orientamento come momento formativo oltre che informativo.
3) L’orientamento come procedimento complesso volto alla presa di coscienza consapevole delle scelte personali in vista dell’autonomia funzionale.
4) La diatesi del verbo orientare che dalla forma “attiva” (orientare) e declinata gradualmente verso la forma “riflessiva” (capacità di orientarsi, auto-orientamento)
In effetti questi 4 assunti riassumono schematicamente le trasformazione del concetto di orientamento negli ultimi 100 anni nel panorama scientifico mondiale.
A tal fine, può essere utile lanciare uno sguardo sulle fasi storiche che hanno segnato i passaggi salienti di tale processo trasformativo.

IL PERIODO PRESCIENTIFICO

In questo periodo che si identifica con l’epoca pre-industriale e che si esaurisce con gli inizi del ‘900 non si può parlare di un vero e proprio orientamento (è probabile che nemmeno fosse in uso tale parola).

Per la società ottocentesca (ed ancor più per quelle precedenti), l’orientamento individuale non era certamente una “prassi”, ma semplicemente un meccanismo di trasmissione psico-sociale che continuava la tradizione familiare; meccanismo che manteneva in modo implicito e silenzioso la rigidità di un sistema sociale diviso per classi.

In pratica, era molto probabile che i figli continuassero a fare lo stesso lavoro del padre (o comunque un lavoro di pari status sociale); così come le figure che potevano svolgere attività orientative si identificavano fatalmente con i soggetti detentori di “autorità” (genitori, nonni, anziani, maestri, artigiani), non esistendo ancora una figura istituzionalizzata di psicologo esperto. (Scarpellini, Strologo, 1976; Pombeni, 1990; Castelli, Venini, 1996).

IL PERIODO SCIENTIFICO

Tale periodo è caratterizzato da varie fasi:
⦁ fase diagnostico-attitudinale
⦁ fase caratteriologico-affettiva
⦁ fase clinico-dinamica
⦁ fase dello sviluppo vocazionale
⦁ fase centrata sulla persona e maturativo-personale

Fase diagnostico-attitudinale

Nei primi decenni del ‘900 lo sviluppo tecnologico-industriale determina una svolta nel settore dell’orientamento e la psicologia finisce per assolvere le esigenze di selezione della grande industria, particolarmente nei paesi anglo-sassoni dove maggiormente si avvertono gli effetti della rivoluzione industriale.
Nascono le prime catene di montaggio dell’industria automobilistica in Europa ed in America, ed è proprio qui oltreoceano, nella patria dei Ford e dei Taylor che nasce il motto che caratterizza questa frase: “l’uomo giusto al posto giusto” (Parsons, 1909; Lawe, 1929).

In effetti l’approccio tipico di questa fase non è quello di considerare il soggetto nella sua complessità globale, ma quello di considerarlo un coacervo di attitudini di base (sensoriali, percettivo-motorie, tempi di reazione, capacità di memorizzazione, ecc.) selezionabili in base alle richieste della grande industria.

È il proliferare dei test attitudinali che riflettono la concezione dell’uomo-macchina al servizio delle esigenze del mercato del lavoro; aspetto tragico-comici così magistralmente descritto da C. Chaplin nel famoso film “tempi moderni”.

Fase caratteriologico-affettiva.

Intorno agli anni trenta ci si comincia a porre il problema che all’esercizio di una attitudine spiccata del soggetto potrebbe non corrispondere una sensazione di piacere e d’uno stato generale di benessere.

Con ciò l’attenzione si sposta dallo studio delle attitudini a quello degli interessi che riflettono una natura caratteriologico-affettiva (Baumgarten, 1949; Holland, 1959).

L’apertura verso l’area degli interessi che evidenzia la sinergia esistente tra il lavoro, gli interessi professionali e la dimensione socio-affettiva ai fini della realizzazione dell’esistenza individuale.

È l’inizio della tradizione psicometrica di test e questionari che si diffondono su larga scala. Tale fase si protrarrà fino agli anni ‘50.

Fase clinico-dinamica

Dagli anni ‘50 in poi e in tutti gli anni ‘60, grazie agli apporti e alla diffusione della psicoanalisi il concetto di personalità assurge a ideale contenitore di tutto ciò che appartiene all’individuo.

Gli elementi profondi della personalità sotto forma di tratti, motivazioni, inclinazioni, tendenze inconsce, divengono l’oggetto di indagine privilegiato caratterizzante la tipologia psicologica del soggetto.

In tale senso l’attenzione si sposta ancora dagli interessi ai bisogni inconsci dell’individuo che se realizzati potranno rappresentare quella dimensione ecologica di benessere psicosociale.

In effetti in questa fase si assiste ad un ribaltamento di prospettiva: non è la “struttura psicologica” che si deve adattare alla “struttura lavorativa”, ma, al contrario, è la dimensione lavorativa che diviene l’occasione sociale per catalizzare le strutture dinamiche profonde dell’individuo nella direzione del loro sviluppo.

Lo stesso Agostino Gemelli differenziava le inclinazioni che erano legate ai meccanismi inconsci interni all’individuo dagli interessi che erano (anche) il risultato di fattori condizionanti esterni come famiglia, scuola, ambiente (Gemelli, 1953).

È facile intuire come in questa fase si sia fatto un grande uso dei test proiettivi di personalità sia nell’ambito dell’orientamento scolastico che professionale.

Fase dello sviluppo vocazionale

Fino agli anni ‘70 si può affermare che la diatesi del verbo orientare è esistita solo nella forma attiva: una gruppo di apprendisti-stregoni chiamati psicologi emetteva la fatidica sentenza e ti diceva quello che era meglio per te ora sotto forma di “capacità-attitudine”, ora come “interesse privilegiato”, ora come “bisogno inconscio” da realizzare.

Dagli anni ‘70 in poi sulla scia di uno studio realizzato dall’Università di Laval del Quebec in Canada (Pellettier et al., 1996), si assiste ad un’inversione di tendenza che riassegna al soggetto il potere e la responsabilità di autorientarsi.

La prassi orientativa diviene un con ciò un procedimento complesso di “sviluppo vocazionale” di cui il soggetto orientandosi diviene attore consapevole capace di coniugare le informazioni psicologiche e socio-economiche esterne con istanze, desideri, aspirazioni interne, rendendosi con ciò soggetto “attivo” e “consapevole” dei processi decisionali implicati nelle scelte di fondo.

Fase centrata sulla persona o maturativo-personale

In questa fase che corrisponde ormai al panorama contemporaneo il protagonista principale del processo di orientamento non è più individuato nell’esperto, ma nel soggetto che “ricerca” qualcosa e per questo chiede aiuto.

Il ruolo dell’esperto sarà certamente quello di fornire un’informazione puntuale e dettagliata avvalendosi anche della necessaria strumentazione scientifica, ma sollecitando nel soggetto l’assunzione di un ruolo “attivo” capace di puntare sulle sue risorse interne, chiarificandosi nelle strategie di pensiero e d’azione ed assumendosi la responsabilità delle sue scelte decisionali.

L’orientamento diviene così auto-orientamento sotto la guida di un mentore chiamato psicologo-esperto.

A rifletterci bene questa forma di orientamento che conclude questa breve rassegna storica, coincide con quella forma di relazione che sta prendendo sempre più piede nel nostro paese (già largamente diffusa in altri paesi) che è il “Counseling psicologico”, e particolarmente il Counseling d’orientamento ed il Career Counseling e con essi la figura del Counselor.

Secondo la migliore tradizione della psicologia umanistica, particolarmente rogersiana, il counseling si definisce proprio come la “capacità di aiutare le persone ad aiutarsi da sole”, secondo le linee di uno sviluppo autonomo.

Infine alcune considerazioni teoriche sull’atto-momento dell’orientare (orientarsi) ci portano a rivalutarlo come atto spiccatamente intelligente e creativo, dal momento che implica l’apertura prospettica verso il tempo futuro; il fascino di prendere decisioni “oggi” leggendo nella sfera di cristallo del “domani”, vincendo con ciò la difficile scommessa di azzeccare il ragionamento col “senno di prima” invece che col “senno di poi” e capitalizzando con ciò energia, tempo e denaro.

BIBLIOGRAFIA

⦁ Baumgarten F. (1949) “Orientation et selection personnelles par l’examen psychologique du caractere, DUNOD, Paris
⦁ Castelli C., Venini L. (a cura di, 1996) “ Psicologia dell’orientamento scolastico e professionale”, F. Angeli, Milano
⦁ Di Fabio A. (1988) “ Psicologia dell’orientamento”, Giunti, Firenze
⦁ Gemelli A. “L’orientamento è opera integrativa dell’educazione ed ha perciò valore educativo”, HOMO FABER, IV, 21
⦁ Holland J.L. (1959) “A theory of vocational choice”, JOURNAL OF COUNSELING PSYCHOLOGY, 6, 33-45
⦁ Lawe F.W. (1929) “ Gli effetti economici della psicologia industriale”.In MYERS G.S. (a cura di), “ Introduzione alla psicologia industriale”, trad. It. Etas Kompass, Milano, 1963.
⦁ Parsons F. (1909) “Valeurs et choix en education”, EDISEM, ST. HYACINTHE.
⦁ Pellettier D. et al. (1974) “Development vocational et croissance personnelle: approache oparatoire, MC. GRAW-HILL, MONTREAL.
⦁ POMBENI M.L. (1990) “Orientamento scolastico e professionale” – Un approccio socio-psicologico, IL MULINO, BOLOGNA.
⦁ SCARPELLINI C., STROLOGO E. (a cura di, 1976) “L’orientamento – problemi teorici e metodi operativi”, LA SCUOLA, BRESCIA.

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