Dunque, partiamo da una concezione della natura umana, tra l’altro perfettamente condivisibile e condivisa nei secoli della storia: L’ANIMALE UMANO E’ UN ANIMALE SOCIALE? La risposta è sì!… e il buon Aristotele aggiungerebbe che proprio per questo è anche un animale parlante.
Bene! Essere animali sociali significa essere animali aperti in costante comunicazione l’uno con l’altro, fin da quando il bambino è ancora nella vita intra-uterina, attraverso il cordone ombelicale, è in costante comunicazione con la madre e per tutta la vita sarà sempre in comunicazione con qualcuno nella sfera sociale, lavorativa, affettiva o del tempo libero.
Che cosa possono comunicare gli uomini tra loro? Praticamente tutto: gioie, dolori, illusioni, delusioni, disillusioni, innamoramenti, tradimenti, perdoni, vendette, pensieri, idee, emozioni, nessuno glielo impedisce, se non loro stessi.
Non c’è nessun limite alle possibilità di scambio attraverso la comunicazione: far assumere all’altro l’esperienza di vita che stiamo vivendo (farlo diventare un po’ come noi stessi nell’attimo della comunicazione a lui dei nostri vissuti) o, al contrario, assumere noi l’esperienza del vissuto di vita dell’altro e sentirci per quell’attimo esattamente come si sente lui.
Lo scambio mentale tra le menti umane non ha nessun limite imposto da Madre-Natura: attraverso il linguaggio verbale ma anche non-verbale (atti, gesti, sguardi, posture) gli esseri umani si contagiano e nelle sequenze comunicative l’uno può ritrovarsi al posto dell’altro e l’altro al posto dell’uno.
Ma c’è una struttura che rimane irriducibile alla possibilità di essere scambiata: questa è la singolarità del CORPO che ogni persona si porta appresso e che la àncora all’individualità unica e irriducibile della propria esistenza.
Qualche esempio potrà essere utile: una madre ha il proprio figlio in ospedale gravemente malato che accusa forti dolori.
Il figlio potrà comunicare alla madre l’esperienza terribile del dolore che potrà anche essere alleviata dall’ascolto, carezzevole, compassionevole dell’amore struggente di una madre per il proprio figlio.
E’ molto probabile che questa madre desidererebbe volentieri cedere al figlio un po’ del suo corpo sano e prendersi un po’ dei dolori del corpo martoriato del figlio……invece potrà fare tutto, MA NON QUESTO!
Possiamo scambiare praticamente tutto anche il dolore morale, il cordoglio come accade nei funerali o l’esilarante gioia festaiola, ma il fatto che non possiamo scambiare il dolore fisico, il fatto che il proprio corpo non è riducibile o sostituibile col corpo di un altro, è la testimonianza più pura della nostra unicità ma anche della nostra più profonda solitudine biologica.
Qualcuno potrà dire come la mettiamo con quelle persone, chiamate giustamente EROI che sacrificano la propria vita per salvare la vita di un altro.
L’eroe non trasferisce il proprio corpo al posto del corpo dell’altro, ma dona la sua vita sacrificando il proprio corpo per salvare la vita che scorre nel corpo dell’altro: Non c’è scambio di corpi, ma solo scambio di vite e di persone Questo dato materiale non barattabile che chiamiamo corpo, se costituisce l’unicità della persona, ne rappresenta anche la sua “nudità”, sartrianamente la sua solitudine esistenziale senza scuse, il suo essere esposto all’ineluttabilità della morte.
Se parliamo di morte naturale (e non di altre morti) è sempre uno che muore, non muoiono tutti insieme. Venendo ora alle contromisure prese sul corona-virus che cosa dobbiamo dire in merito.
Le contromisure relative alla “distanza sociale” (termine orrendo), proprio in quanto preservano il corpo dal rischio del contagio attraverso la proibizione del contatto, producono il suo isolamento sociale restituendogli l’angosciante verità di essere solo al mondo.
Non potersi guardare, toccare, parlare da vicino, non potersi muovere liberamente come vorremmo, ci salva e ci distrugge insieme. Assomigliamo un po’ a delle monadi leibnitziane che si muovono nello spazio sociale con i loro scafandri profilattici con scarse comunicazioni con l’esterno, badando bene a non contagiarsi e contagiare: questa è la mentalizzazione del senso angoscioso di solitudine che vive certamente una mente, ma solo perché il suo corpo è condannato a esistere “da solo”.
E che dire di tutti quei morti (vecchi ma anche giovani) costretti a morire nella più desolante solitudine senza il conforto dei loro cari, i quali, a loro volta condannati alla straziante consumazione della perdita nell’isolamento più totale. Attenzione!
Non sto dicendo che le contromisure preventive contro il corona-virus siano sbagliate (limitazione degli spostamenti, distanza sociale ecc.), sto semplicemente dicendo che queste contromisure, probabilmente giuste, ci stanno sbattendo in faccia una triste verità occultata nei tempi di vita sociale libera e felice, quando lo scambio umano è permesso e quindi possibile, quando la libertà di movimento esorcizza l’idea della morte illudendoci di essere immortali.
La verità nascosta che sta tornando a galla è che siamo soli al mondo, ed è proprio il nostro corpo, la sua irriducibilità che ce lo ricorda. Da questo film di fantascienza che vede lo spazio-tempo sociale “sospeso” (anche quello famigliare), presto o tardi ne usciremo; molti ne usciranno con le ossa rotte (soprattutto psicologiche), ma sono sicuro che molti altri, invece, ne usciranno rafforzati, perché se c’è una lezione che questo virus potrebbe insegnare a tutti è la possibilità di confrontarsi con la morte, di cui il nostro misero corpo ne è il testimone.
Nell’ultima strofa della poesia “A Silvia” di Leopardi c’è la mano di Silvia che indica a tutta l’umanità il suo triste destino: una tomba ignuda.
Ma la mano di non è solo quella di Silvia ma quella della vana speranza umana di essere immortali.
Se Epicuro o Democrito tornassero in vita ci direbbero: se non si muore di corona-virus di qualcosa su dovrà pur morire! Pacificarsi con la morte, questa è l’unica speranza umana.
E’ proprio il caso di dire che non tutti i mali vengono per nuocere, o perlomeno, non solo per nuocere.